luca-barroniL’esperienza del familiare colpito da epatocarcinoma al fegato iniziò nel luglio del 2005 da un attacco di appendicite che ci permise di scoprire la malattia.

Dopo l’operazione chirurgica, in un’ecografia di controllo, i medici si resero conto della presenza di una massa tumorale nel fegato. La diagnosi fu di epatocarcinoma primitivo maligno del fegato.

La comunicazione della notizia da parte dei medici ci sconvolse. Non ritenemmo possibile, infatti, che il familiare, da sempre attivo nello sport (nuoto, ballo, corsa etc.), privo di vizi come il fumo da sigaretta e l’alcool, con un’alimentazione adeguata ricca di frutta e verdura e con nessun precedente familiare di malattie simili, si fosse improvvisamente ammalato.

Nessuno di noi immaginava che la malattia si potesse sviluppare su un fegato sano; gli stessi medici stentarono a crederlo basandosi sui dati statistici in loro possesso e sull’età della persona, relativamente giovane. La parte più difficile fu comunicare al familiare la diagnosi dei medici. D’altra parte non c’erano dubbi: se esteriormente non manifestava alcun sintomo, l’ecografia prima, la T.A.C. poi e le correlate analisi del sangue, rivelarono invece una massa tumorale di 5 cm con un valore dell’alfa-feto-proteina fortemente superiore alla norma. Il familiare fu quindi operato una prima volta per l’asportazione della massa senza che i medici ritenessero opportuno ricorrere alla chemioterapia né prima né dopo l’operazione. A fine estate, però, a seguito di un’ecografia di controllo si accertò che la massa tumorale si era riformata e da una erano diventate ben tre ognuna di poco superiore al centimetro.

Per la seconda volta il mondo ci crollò addosso: volevamo rifiutarci di credere ai risultati diagnostici. La collera e la rabbia presero il sopravvento su di noi. I medici dell’ospedale ci consigliarono di recarci in un centro più attrezzato e specializzato preferibilmente all’estero. Il familiare, deciso a combattere con tutto se stesso il suo male e resosi comunque conto della sua situazione decise autonomamente di consultare altri specialisti. Più volte ci disse che sperava di trovare un centro che gli permettesse di migliorare la durata e la qualità della vita. In una di queste visite specialistiche si aprì una speranza, una vera e propria possibilità di guarigione: la visita sostenuta nel periodo natalizio del 2005 a Milano presso l’Istituto Nazionale dei Tumori.

I medici consultandosi tra di loro, giudicarono il caso del familiare inusuale e da studiare con attenzione: si trattava infatti di un tumore maligno di tipo pediatrico su paziente adulto con fegato sano.
Al principio del 2006 ci fu il ricovero in Istituto e dopo una serie infinita di esami venne sottoposto a un primo ciclo massiccio di chemioterapia della durata di quattro giorni consecutivi.

L’età relativamente giovane, l’ottimo stato di salute generale sia fisico che psicologico permisero una terapia molto efficace ma dagli effetti devastanti che in due tre giorni dalla fine del primo ciclo di cure il familiare perse tutti i capelli, fu soggetto a svenimenti e ad attacchi di vomito.
I cicli di chemioterapia furono ripetuti per altre tre volte sempre con gli stessi metodi di cura aggressivi, tanto che tra un ciclo e l’altro fu spesso necessario ricorrere a iniezioni per ristabilire il numero dei globuli bianchi necessari per affrontare un’altra seduta.

Dopo l’ultimo ciclo i controlli evidenziarono un crollo dell’alfa-feto-proteina che rientrò nei limiti della norma e che la massa tumorale era rimasta invariata. A questo punto i professori dell’Istituto decisero di intervenire chirurgicamente, ricorrendo però ad un trapianto di fegato. Come condizione preliminare era necessario che fino al trapianto, non si verificassero aumenti delle masse e dei marker tumorali.

Il nominativo del familiare venne inserito nella lista dei malati in attesa di trapianto d’organo. Il periodo che precedette l’intervento fu probabilmente il più difficile per me e i familiari. Passarono i giorni, le settimane, i mesi ma non c’erano donatori disponibili…

Le condizioni di salute del familiare fortunatamente non peggiorarono ma la tensione, la paura, l’attesa snervante crescevano in noi. L’Istituto offrì la possibilità di ricorrere alle cure di una psicologa per affrontare nelle migliori condizioni possibili questo periodo di attesa. Le sedute furono sia individuali che di gruppo. La psicologa ci fornì un valido aiuto per affrontare in modo positivo la situazione e offrire sostegno al familiare e a noi stessi. Poi, nel gennaio 2007, la chiamata tanto desiderata… Il familiare affrontò l’operazione con grande forza e coraggio… L’operazione avvenne nella notte del 30 gennaio, e durò ben 12 ore. Successivamente, una volta che si stabilizzarono i valori post-operatori, cominciò la fase del recupero.

Per oltre un mese il familiare rimase a Milano per controlli generali (il pericolo incombente era il rigetto) mentre lentamente riprendeva una vita quasi normale: riassaporò il piacere del mangiare, camminare prima con presidi e poi in modo autonomo, curare la propria persona, fare progetti.

Ancora oggi il familiare si reca a Milano per controlli periodici: ogni 6 mesi viene sottoposto ad ecografia e T.A.C. di controllo ed ogni 3 ad analisi del sangue. Per tutta la vita dovà assumere farmaci orali anti-rigetto in orari prestabiliti che ne abbassano le difese immunitarie. Non è ancora completamente fuori pericolo, in quanto, basandosi su dati statistici di simili esperienze, è necessario attendere cinque anni dalla data dell’intervento per considerare il familiare “guarito” ma siamo fiduciosi in quanto siano arrivati quasi a quattro.

L’esperienza di vita è stata importante: mi ha fatto capire che oltre alla caparbia volontà del familiare di guarire, è fondamentale in queste fasi che le varie equìpe sanitarie mettano a disposizione ognuno per la propria parte di competenza, professionalità e approcci operativi che aiutino il malato e lo sostengano in questo difficile percorso terapeutico che purtroppo ancora oggi può avere un esito infausto e crudele. Questi pazienti dipendono veramente dal personale sanitario a tutti i livelli (dal professore all’ultimo operatore Asa) per cui specie a livello di contatti quotidiani e di routine è fondamentale mettersi in relazione con loro, essere in sintonia con i loro desideri, paure, speranze, timori, dolori e gioie. Entrare nella loro intimità e nella loro dignità senza umiliarli ma con rispetto e serietà. L’approccio deve essere sempre positivo, concreto, professionalmente efficiente e operativamente efficace. L’esperienza del familiare mi ha fatto riflettere pure sull’importanza della donazione degli organi e nel supremo atto di buona volontà che è quello di donare una parte di sé a qualcuno che altrimenti morirebbe.

Il testo di questo articolo è tratto dalla tesina “IL TUMORE DEL FEGATO” redatta da Luca Burroni per l’ottenimento della qualifica di operatore socio-sanitario.

Luca Burroni è figlio di Rosanna Tossi, Amica e Socia di Prometeo trapiantata nel gennaio del 2007.

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