handsMi chiamo Giuseppe Bonassi, ho 53 anni, ma se qualcuno dovesse chiedermi la mia età di oggi …. risponderei “fate voi i calcoli, io sono rinato il 15 dicembre 2003!”

Bel modo per iniziare a raccontare la mia storia, che non è costellata da momenti particolarmente felici e facili, ma credo sia il modo migliore per far capire subito a chi legge, che alla fine di tanti tormenti ho ritrovato, con entusiasmo, la vita.

Andiamo per ordine…le mie vicissitudini hanno inizio nel ’89 con dei semplici controlli, “transaminasi alte”, valori fuori “dai parametri”, controlli su controlli e, alla fine, nelle mani del prof. Carosi (primario dell’Ospedale Civile di Brescia) mi viene diagnosticato “il killer silenzioso”: l’epatite C.

Curioso il soprannome dato a questa patologia, sembra che il tuo destino sia ormai inevitabilmente segnato e che l’impotenza, il nulla ti avvolgano silenziosi, rendendoti spettatore della tua vita. In realtà noi con il prof. Carosi non siamo stati poi tanto passivi: abbiamo provato diverse cure, anche pesanti non solo per il mio fisico, ma anche e soprattutto per il mio equilibrio psico-emotivo e quello di chi mi ama sono diversi (moglie – figlio – sorella).

Mentre mi sottoponevo alla cura di Interferone (cura sperimentale) mi sono ritrovato a volte a non più riconoscermi; i miei atteggiamenti, il mio modo di condividere con chi amo la vita sembrava non più appartenermi. Sono stati momenti difficili e mentre affrontavamo insieme queste difficoltà io continuavo ad essere sottoposto a biopsia per monitorare lo stato del mio fegato. Le cose sembravano precipitare ulteriormente il 19 maggio del 2000; l’ecografia presenta chiaramente un nodulo al fegato. E’ di nuovo silenzio! Le parole non esistono in quei momenti, come se evitare di parlarne anche con mia moglie, potesse cancellare la realtà e la mia angoscia potesse lenirsi da sola.

In questo caso il prof. Carosi cerca di tranquillizzarci spiegandoci bene la situazione e poi ci dice: ” se fosse mio figlio lo porterei al Centro Tumori di Milano e lo affiderei al dottor Mazzaferrro da me conosciuto e molto stimato”. Si prodigò lui stesso per i primi contatti e a luglio del 2000 il mio fegato conosceva le mani esperte del prof. Mazzaferro, che asporta l’odiato nodulo e mi ridona la speranza. Mi riprendo molto bene e dopo venti giorni sono al lavoro, tutto questo ci fa sperare in una buona sorte. L’illusione però dura poco fino a luglio 2002, quando la malattia si ripresenta più aggressiva di prima, ma ricordo molto bene che il prof. Mazzaferro dopo uno sguardo veloce alla TAC mi dice: “se hai fiducia in me ti opero, non posso garantirti niente, devo togliere circa metà fegato, sarà un intervento molto difficile, preferirei fare un trapianto, ma ci tengo a salvarti la vita”. Nonostante la grande delusione, il discorso del prof. mi riempie di gioia, non avevo il minimo dubbio sulle sue capacità, ero sicuro al cento per cento nella riuscita dell’intervento. E così fu, andò tutto bene e mi ripresi rapidamente. Ma i momenti successivi all’intervento sono stati per me un susseguirsi di intensi tentativi di auto-convincimento: dovevo lottare contro il tempo per raggiungere l’unico mio obbiettivo “un fegato nuovo”.

L’ansia e la paura di non aver nulla di sicuro, di sentirmi in balia in ogni momento di fronte alla morte, mi hanno fatto sentire veramente oppresso, quasi soffocato da quella realtà che sentivo, ma non vivevo intorno a me. Con questo stato d’animo passano otto mesi, tutto va bene e finalmente vengo ricoverato per gli esami pre-trapianto. Dopodiché vengo dimesso con un appuntamento per un colloquio in base agli esami fatti. Passano due giorni, sono a casa, quando mi giunge al telefono, la voce del dott. Romito che con grande rammarico mi annuncia che dalla TAC hanno evidenziato un puntino sul polmone sinistro, quindi si necessita un ulteriore intervento di verifica. Di nuovo niente trapianto, solo vuoto, silenzio, paura immensa. Ma anche questa volta qualcuno dall’alto mi è vicino ed il risultato è negativo e finalmente il grande prof. Mazzaferro guardandomi neglio occhi, consapevole di darmi un’immensa gioia mi dice: “Abbiamo deciso per il trapianto, ne hai passate abbastanza”.

Arriviamo al 15/12/2003; alle ore 14.10 sono al lavoro, uno squillo di cellulare e dall’Istituto mi giunge la voce della Signora Patrizia che con la sua tattica particolare mi dice: “Signor Bonassi corra, c’è un fegato per lei”. Il mio cuore è in gola, la testa forse scoppia per la vastità di pensieri che si accalcano e la gioia mi spinge, quasi inconsciamente, a correre a Milano, scortato dalla Polizia verso la vita e contro il tempo. Arrivo al Centro non voglio aspettare l’ascensore, faccio i gradini due per volta fino al settimo piano ed alle ore 16.00 dello stesso giorno mi sono abbandonato ad un sonno profondo che mi avrebbe portato ad una nuova vita e che mi avrebbe fatto dimenticare le ansie, le tensioni e le illusioni sofferte. Mi sveglio in Terapia Intensiva alle ore 15.30 del giorno dopo consapevole di essere ancora vivo e con dentro di me la certezza che tutto fosse andato bene.

Ho avuto la consapevolezza (nonostante non avessi ancora visto i medici) che quella grande equipe di dottori avevano fatto il miracolo e mi avevano ridato la vita. Tre giorni in Terapia Intensiva e poi il ritorno in reparto. Li ho proprio sbattuto la testa contro una felicità immensa sul viso dei dottori ed infermieri compresi, tutti che si complimentavano con me come se a compiere il miracolo fossi stato io anziché loro. Ho visto la felicità del primario e di tutta la sua equipe, felicità di chi fa questo lavoro per passione e con passione. Voglio ringraziare di vero cuore lui e tutta la sua equipe, tutto lo staff infermieristico (che fondono professionalità e umanità), oltre mia moglie, mio figlio, mia sorella che mi hanno sempre sostenuto.

Un pensiero particolare sento di rivolgerlo ai donatori di organi e di sangue che nel loro totale anonimato ci danno al vita. Infine oggi all’inizio della mia nuova vita mi sento di ringraziare anche Nostro Signore Gesù, che, sono sicuro, mi abbia guardato dall’alto non lasciandomi mai.

Guerriero Bonassi Giuseppe

Condividi questo articolo sui social